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Il Tempo del Bosco di Mario Calabresi: Un Viaggio alla Ricerca di Significato tra Storie di Vita e Natura. Recensione di italianewsmedia.com
Mario Calabresi esplora le incertezze della vita moderna con storie toccanti di persone comuni e straordinarie
Mario Calabresi esplora le incertezze della vita moderna con storie toccanti di persone comuni e straordinarie. In Il Tempo del Bosco, Mario Calabresi ci guida attraverso un viaggio unico in Italia, alla ricerca di storie che affrontano temi universali come l’incertezza, l’ascolto e la ricerca di una direzione nella vita. Il libro nasce da una domanda sincera e dolorosa di una giovane…
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Uno dei segreti meglio mantenuti, livello Ustica, è quel grafico della qualità dell'aria in Padana, IN REGOLARE MIGLIORAMENTO ANNO DOPO ANNO. Non è conforme la narrativa dei sindaci e delle inzegnandi medie.
Non serve esser geni informati, ci arriva da solo anche un sinistro se vuole: basterebbe contare il numero calante di classeoperaia cioè di fabbriche pesanti, la fine delle caldaie a carbone, delle benzine al piombo, gli euro 4,. poi 5 poi 6 etc. Basterebbe ricordare o farsi raccontare di quei nebbioni invernali di una volta che non ci sono più, voi non potete capì com'era.
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Dune - Parte Due, un sequel imponente, tra continuità e naturale evoluzione
Ci siamo. Finalmente
Finalmente perché è uno di quei film che sono in grado di portare il pubblico in massa nelle sale. Finalmente perché è indubbiamente il tipo di produzione di cui il cinema ha bisogno per solleticare l'immaginario degli spettatori e mostrare come e quanto il grande schermo possa fare ancora la differenza rispetto all'ormai abituale visione casalinga.
L’attesa è stata ampiamente ripagata da quanto si è potutto vedere, perché ha contribuito nell’ accrescere l’ hype per questo secondo capitolo e anche perché arriva in un periodo meno carico di novità rispetto lo scorso autunno, quando era programmata inizialmente la sua uscita.
Dune - Parte Due si presenta al proprio pubblico in una perfetta continuità con quanto visto nella prima parte, non solo continuando ma anche sviluppando la storia che era stata impostata, rappresentandone la naturale evoluzione sia in termini narrativi che espressivi. Resta il Dune che molti avevano amato nella sua prima parte alzano però l'asticella sotto molti punti di vista.
Dune - Parte Due riparte da dove ci aveva lasciato, da quella conclusione che a molti aveva lasciato l'amaro in bocca. La seconda parte riprende l'arco narrativo di Paul Atreides (Timothée Chalamet) e le fila del racconto in senso ampio e compiuto. In questa seconda parte molto più spazio è finalmente dedicato al personaggio di Zendaya che nella prima parte aveva un ruolo molto introduttivo. Ed è alla Chani di Zendaya e ai Fremen che Paul si unisce, alla ricerca della vendetta contro i cospiratori che hanno distrutto la sua famiglia e per fermare quel terribile futuro che è in grado di prevedere. Una missione che mette Paul davanti a sfide e scelte, portando avanti la componente drammatica ed epica che l'adattamento di Villeneuve aveva già introdotto nel precedente.
Denis Villeneuve ci riconduce in un mondo affascinante e costruisce il film attorno ai suoi personaggi: il suo Dune, pure essendo un grande spettacolo visivo, è anche sopratutto la loro storia che il regista asseconda sia in termini di scelte visive che per la fotografia. L'autore di Arrival e Blade Runner 2049 ci mette faccia a faccia con le scelte che deve compiere Paul per poter portare avanti la sua missione, ma sopratutto si affida per dare cuore e forza al racconto alla Chani di Zendaya, forse uno dei personaggi con il percorso più solido e strutturato. Se però lei non è una novità assoluta, lo è invece Austin Butler con il suo Feyd-Rautha Harkonnen, figura enigmatica e folle, a cui l'attore dà vita sia nello sguardo che nelle movenze, in un perfetto equilibrio su un filo sottilissimo senza scivolare in eccessi che l'avrebbero potuto rendere una macchietta.
Peccato per le altre New Entry che hanno poco spazio, che come per Zendaya nel capitolo precedenti fanno capolino nella storia in attesa di avere maggior spazio e ulteriore importanza nel seguito. È il caso di Florence Pugh e Christopher Walken, la cui valutazione andrà ragionata sulla lunga distanza e sulla trilogia che Villeneuve ha in mente. Si tratta in ogni caso di limiti dovuti alle scelte di scrittura e costruzione narrativa su più film, piuttosto che valenza e qualità degli attori, perché tutto il cast e la relativa resa visiva è sempre a fuoco e ottimale.
C'è infatti continuità narrativa e visiva in Dune - Parte Due rispetto al suo precedessore. Il nuovo film riprende e amplifica quanto già visto con coerenza stilistica e contenutistica, un aspetto che consideriamo come uno dei suoi pregi, ed è qualcosa di non così scontato come potrebbe sembrare. Il Dune di Villeneuve si dimostra un'opera unica e potente. Nessun compromesso a cui sottostare, Villeneuve, nel dettare i tempi del suo racconto, lo porta avanti con un andamento calmo e ragionato ma allo stesso tempo potente e travolgente: non c'è scena di Dune - Parte Due che non lasci il segno, che sia un semplice dialogo o una battaglia che lascia senza fiato.
Ci si sente travolti dalla sabbia del deserto di Arrakis, tremano le gambe quando ci si trova faccia a faccia con i possenti vermi che abitano quei luoghi, e si freme di emozione nei momenti più intensi ed emotivi. Si partecipa alla visione e ci si immerge al suo interno sostenuti dalla musica di un Hans Zimmer e da una fotografia d'impatto capace di adattarsi ai diversi momenti e luoghi del film e dei personaggi. Dune - Parte Due prende a piene mani quanto c'era già di buono nel capitolo precedente e fa quel passo in avanti che ci si aspettava e augurava. E travolge lo spettatore come una tempesta di sabbia.
Concludendo Dune Parte 2 è un sequel in perfetta continuità con quanto visto nel precedente, un secondo film che affonda a piene mani in quanto di buono e forte era già presente nel primo capitolo e lo sviluppa con coerenza. Una vera e prorpia evoluzione, più che una sola continuazione di quanto già visto, che porta alla realizzazione del percorso di alcuni personaggi, sviluppandone altri soltanto accennandoli e guarda avanti introducendo altri elementi che la possibile e probabile terza parte avrà modo di approfondire. Molto a fuoco tutto il cast, ma è la messa in scena del racconto da parte di Denis Villeneuve a lasciare davvero senza fiato, grazie alla potenza e magnificenza della costruzione audio-visiva. Un film da vedere e da ammirare.
Perché ci piace
- La coerenza con cui vengono sviluppati i discorsi introdotti nella prima parte, sia dal punto di vista narrativo che visivo.
- La potenza della messa in scena e tutto il comparto audio-visivo del film.
- Un Hans Zimmer in stato di grazia nel sostenere il racconto con la sua colonna sonora.
- La Chani di Zendaya, su cui è stato fatto un ottimo lavoro di scrittura e costruzione narrativa.
- Timothée Chalamet, Zendaya e tutto il cast.
Cosa non va
- … al netto di un paio di personaggi che sono solo introdotti e che dovremo aspettare di veder sviluppati nella possibile Parte Tre.
- Se eravate scettici dopo il primo film, è possibile che anche il secondo non vi travolga. Ma per qualità e potenza vale la pena di provare.
#dune#dune part two#dune part 2#dune movie#dune 2#paul atreides#timothee chamalet#zendaya#florence pugh#austin butler#review#recensione
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti
ANTICHE TECNICHE, ANTICHE SENSIBILITA'
La ceramica antica non è appassionante poichè appare ornamento di un oggetto che riveste ben altre utilità. Eppure possiede una notevole importanza per l'archeologia e la conoscenza del passato: la ceramica è il più delle volte "databile" e grazie a questa caratteristica diviene uno strumento "datante". Eccone un esempio. Sul cratere, datato al 515 a.C., conservato nel museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma, Euphronios narra l’epilogo della vicenda terrena di Sarpedonte, re licio figlio di Zeus e di Laodamia, caduto durante la guerra di Troia come avversario del fronte acheo, il cui cadavere, riverso e possente, viene trasportato, al cospetto di due guerrieri situati alle due estremità della scena, da Thanatos (la morte) e Hypnos (il sonno, personificazione di un concetto di origine presocratica). Ermes, riconoscibile dal caduceo che porta in mano, assiste all'atto pietoso: la caratterizzazione dei personaggi è un’altra dote della ceramografia narrativa rivelata attraverso le “figure rosse”. Ma i limiti dell’espressività delle figure nere sono superati anche attraverso dettagli che acquisiscono consistenza materiale, imprimendo alle rappresentazioni la consistenza di “apparizioni”, luce in rilievo dal fondo acronico di un tempo mitico. Perché, a ben vedere, la coniugazione tra il nero del fondo e le figure che su di esso si stagliano, produce un effetto visivo di forte impatto, l'emergere dal “nulla” della vita che s'impone allo spettatore come espressione di un monito, di un messaggio filtrato attraverso la sintesi delle immagini, di un atto di comunicazione che diviene testo retorico e convenzionale dei valori ideali della polis. Il tema è originalissimo e quindi di raro uso. Ed è conciliatorio: il cratere porta impressa la rappresentazione dell’omaggio funebre che supera la consueta distinzione tra alleato e nemico per raccogliersi intorno alla condizione ineluttabile dell’abbandono dell’esistenza terrena di un combattente valoroso. Con il dio Ermes, invisibile - lo è, nell'espressione simbolica, grazie all’elmo che indossa - che solleva la mano ad indicare l’ascesa del guerriero verso la trascendenza. Il cratere a calice è attribuito ad Euphronios in qualità di ceramografo (agì tra il 520 ed il 500) e ad Euxitheos come vasaio. La produzione di ceramiche a figure rosse rappresenta il punto d’arrivo di un lungo ed intenso processo di raffigurazione narrativa sorto nel c.d. periodo protoattico dell’età orientalizzante allocabile nel VII sec. a.C. (700-625 a.C.) e giunto fino agli anni 530-525 a.C. ai quali si fa risalire convenzionalmente l’invenzione della nuova tecnica che prevede superfici vive risparmiate stagliate su un fondo trattato con vernice nera brillante. Su questi spazi la raffigurazione interamente pittorica scopre la luce delle immagini prima campite, al contrario, con vernice nera ed incisioni necessarie a fornire i dettagli anatomici dei corpi. La tecnica a figure nere, più antica e diffusa, risalente alle opere del pittore di Nesso, continuò a convivere a lungo con il nuovo “stile” a figure rosse (così definite poiché le superfici dell’argilla lasciate libere dalla campitura nera del fondo assumono, a seguito della cottura, un caratteristico colore rossastro) che s’impose definitivamente solo nel primo quarto del V sec. a.C.. Fino ad allora, si assiste a produzioni che rivelano la parallela persistenza (specie fuori dall’Attica) del vecchio modo e pensino la creazione di vasi “bilingui”.
- In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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Appunti di genere I: Wraeththu
(Sì, il blog vive ancora. Il ritmo è calato molto per un mix di mancanza di cose da segnalare e vicende nella vita vera.)
Come ho già segnalato in altri post, sono una grande appassionata di New Weird. È stata in effetti questa passione piuttosto precoce che mi ha convinto a dare una chance alla lettura in inglese durante i primi anni delle superiori, visto che la probabilità di trovare qualche libro appartenente ad un sottogenere del fantasy diverso dagli high fantasy di stampo tolkeniano (stampo di qualità perlomeno altalenante, mi tocca aggiungere) in una qualunque libreria in Italia era molto bassa: il primo libro che lessi così fu The Year of Our War di Swainston, che cementò la sicurezza che questo genere fosse stato pensato proprio per chi come me era ossessionata dal leggere di cose che non avrebbe mai potuto immaginare da sola e vederle prendere vita con una minuzia e una precisione straordinarie. Poi Swainston scrisse, ahimè, anche altri libri, ma ormai lanciatissima iniziai a leggere quasi tutta la narrativa fantastica che mi interessava in inglese.
Vabbè, momento nostalgia a parte, anche se tra la Trilogia dell’Area X e qualche libro del Bas-Lag di Miéville qualcosa si è mosso, ci sono ancora tantissimi autori recenti che rimangono lontani dal fare il loro debutto sugli scaffali delle librerie nostrane, ma per il consiglio di oggi ci tenevo a segnalare la serie di un’autrice che è a tutti gli effetti una delle madrine (se non LA madrina) di questo sottogenere e che ha ancora meno chance di altri di arrivare anche qua in Italia: la trilogia Wraeththu di Storm Constantine, pubblicata tra il 1987 e il 1989 e tutt’ora inedita in Italia. Nonostante non mi informi spesso sul background di un autore prima di dargli una chance, qualche notizia su Storm Constantine mi ha convinto che si trattava di un tipo interessante: intanto perché quello è il suo vero nome, cambiato all’anagrafe dopo anni di pubblicazioni sotto pseudonimo, e poi perché da tutto quello che ha fatto in vita, dal sostegno alle fanfiction delle sue opere alla gestione di siti e wiki dedicati ai suoi mondi fantastici, traspare un genuino amore per i fan e un’idea della scrittura come atto comunitario che è relativamente peculiare tra gli autori che leggo. La stessa premessa della serie di cui volevo scrivere oggi – che una razza priva di genere, bellissima e letale, rimpiazzi a poco a poco gli umani – deriva dai look androgini delle band che frequentava in gioventù; senza ulteriori indugi, dunque, le mie impressioni su una serie che fa tante cose in modo mediocre o addirittura pessimo, ma che ne fa almeno altrettante in maniera interessante.
Come specificavo appena sopra, la trilogia di Wraeththu parte dall’idea che alle periferie di una civiltà umana ormai in lento declino si sviluppi una mutazione, inizialmente circoscritta a pochi individui, che ne modifichi il corpo e i sensi in maniera talmente radicale da creare una nuova specie: i Wraeththu, persone dotate di organi femminili e maschili, androgini d’aspetto e incredibilmente forti e resistenti, con abilità magiche e occulte che permettono loro di utilizzare telepatia, piromanzia e altri incantesimi molto più oscuri; l’intera trilogia è incentrata sul lento percorso che i Wraeththu compiono per ereditare la Terra – dai rapimenti di adolescenti dalle famiglie nelle periferie per trasformarli, alle guerre brutali condotte sotto il segno della conquista, fino ai tentativi di convivenza con quegli umani che si ostinano a non voler cedere il passo a questa razza che è chiaramente migliore di loro sotto tutti gli aspetti. Giusto?
La copertina della raccolta di tutti e tre i libri. L’influenza punk è piuttosto evidente.
È rimarchevole il fatto che tutti e tre i libri si svolgano in momenti dell’avanzata molto diversi tra loro, e che lascino impressioni assai differenti sui Wraeththu coinvolti nelle vicende raccontate: il primo libro, The Enchantments of Flesh and Spirit, segue i viaggi di Pellaz, ragazzo fuggito assieme al Wraeththu Cal e iniziato rapidamente in un mondo fatto di piccole tribù sparse, che sono tutte più o meno apertamente ostili agli uomini ma che raramente hanno la forza di opporsi alle città più grandi e ben organizzate; sopravvivono grazie a fragili reti commerciali, furti e saccheggi e l’occasionale zuffa con gli abitanti delle zone isolate in cui gli uomini stanno iniziando a temere questa massa di guerrieri che hanno al loro fianco sciamani con strani poteri e una resistenza sovrumana. L’ultimo libro, che ha per protagonista Cal e il suo compagno di viaggi Panthera, dettaglia invece grandi insediamenti con culti, tradizioni e strutture sociali proprie e una società largamente abituata a considerare normalità tutte quelle caratteristiche Wraeththu che erano aliene o disturbanti ai Wraeththu stessi durante i primi anni delle loro trasformazioni; il risultato è effettivamente una cronaca dell’ascesa al potere di una nuova specie, che si trova a confrontarsi con due quesiti fondamentali che ne segnano l’intero percorso: che cosa dobbiamo fare dei nostri corpi ora che non esiste più alcuna differenza tra uomini e donne? E se siamo davvero così superiori agli uomini, saremo in grado di costruire qualcosa di meglio di quello che hanno fatto loro?
La risposta – anzi, le risposte – alla prima domanda è sicuramente uno dei motivi per cui ho deciso di parlare sul blog di questa trilogia, nonostante i suoi numerosi difetti. I Wraeththu sono a tutti gli effetti descritti come una razza che nasce dall’unione di aspetti maschili e femminili: senza peli, privi di seno e con genitali sia maschili che femminili (espressione imprecisa ma comprensibile, data l’età del testo), sono il ritratto di una bellezza androgina, a tratti anche un po’ patinata e occasionalmente perfino un filo ridicola, considerando quanto tempo i personaggi indugiano ad ammirarsi allo specchio e reciprocamente. Ma se si scrosta un po’ la patina da belli maledetti che evoca il minaccioso spettro di Twilight è evidente che l’interesse di Constantine è ben distante da quello di creare una nuova specie di Gary Stu (si dice ancora Gary Stu? Mi sento anziana) su cui far beare inesistenti schiere di fangirl, ma è piuttosto un modo di esplorare la psiche di un mucchio di giovani adolescenti che si trovano di punto in bianco in un corpo che è molto lontano dalla mascolinità che avrebbero dovuto raggiungere con la fine della pubertà.
Sì, perché la particolarità della mutazione che tramuta gli umani in Wraeththu è che sembra essere una mutazione esclusivamente maschile: i tentativi di trasmutare le donne falliscono tutti, e non incontriamo un solo Wraeththu che dichiari di essere stata una ragazza; il risultato è che, sebbene i Wraeththu siano a tutti gli effetti “l’unione di principi maschili e femminili”, il risultato della trasformazione che inizia a infettare le periferie è quello di un branco di giovani confusi che ragionano esattamente come ragionavano da ragazzi e faticano a lasciar andare quelle dinamiche di genere che caratterizzavano tutti i loro rapporti, compresi quelli sessuali. L’esempio più evidente fin dal primo libro è quello di Cal: un ragazzo gay spaventato dalle donne che da Wraeththu non riesce a scrollarsi di dosso quei rigidi ruoli che avevano caratterizzato le sue relazioni fino al momento della trasformazione e che ripropone in tutte le sue relazioni le stesse dinamiche di sottomissione e dominazione che aveva vissuto durante la sua vita umana.
C’è anche un ttrpg! Non l’ho provato, anche perché credo sia quasi impossibile da reperire, ma giocare con quest’ambientazione dev’essere molto divertente.
Alcune delle pagine più belle sono dedicate ai rapporti tra i Wraeththu e le donne. Alcune di loro, affascinate dai Wraeththu e spesso un po’ invidiose di quella trasformazione che ha cambiato gli uomini da loro signori e padroni nella società maschilista in cui avevano vissuto fino a quel momento a entità a cui riconoscono una sorellanza precaria, vivono affiancando i Wraeththu aspettando che l’umanità sparisca lentamente dalla terra, convinte di rinascere nel principio femminile che costituisce la metà della nuova specie; altre però sperimentano subito la brutalità di alcune tribù Wraeththu, che non appare affatto diversa da quella umana: le donne nelle zone raggiunte dalla tribù dei Varr vengono uccise o schiavizzate, considerate poco più che animali incapaci di ascendere allo stadio successivo dell’evoluzione dell’umanità, e trattate con modalità per nulla diverse, se non peggiori, da quelle della società patriarcale in cui avevano vissuto fino a quel momento. È anche e soprattutto da questi scorci di inaspettata violenza e crudeltà che l’immagine perfetta dei Wraeththu inizia ad incrinarsi e qualche crepa inizia ad insinuare il sospetto che per essere una razza perfetta, al di sopra di ogni meschinità umana, molti Wraeththu si stiano comportando come tutti i conquistatori umani prima di loro.
L’incapacità Wraeththu di lasciar andare le emozioni, le passioni e i temperamenti umani ancora e ancora produce società, costumi e dinamiche identiche a quelle che avevano giurato di lasciarsi alle spalle: queste ipocrisie sono descritte molto bene da Constantine, ed è dunque sorprendente che non sia capace di risolverle in maniera soddisfacente. Il terzo libro della trilogia è sicuramente il più debole per tanti motivi (vedi i paragrafi successivi), ma uno di essi è la mancanza di una costruzione coerente che leghi assieme tutti questi momenti molto belli in cui il percorso dei Wraeththu per diventare qualcosa di più degli umani viene sfidato dalla loro incapacità di far funzionare in armonia quel loro nuovo corpo intriso di magia e nuove potenzialità e la loro mente ancora saldamente ancorata agli schemi del vecchio mondo. Forse uno degli esempi più lampanti in questo senso è l’utilizzo dei pronomi in questa serie: tutti i Wraeththu parlano di sé al maschile, ma pionieristicamente una donna di nome Kate suggerisce a Pellaz che non sembra il modo giusto di parlare di una creatura che non è né uomo né donna; questa idea viene ripresa ancora un paio di volte e avrebbe potuto avere conseguenze interessanti all’interno delle dinamiche di genere della storia, ma viene poi persa definitivamente con il passare delle pagine e nel terzo libro non viene mai più menzionata.
Insomma, la trilogia è al suo meglio quando i suoi personaggi si immergono a fondo nelle contraddizioni di una specie che dovrebbe esistere al di là di tutto ciò che è umano ma che continua a vivere come se fosse tale – anzi, a ben vedere, spesso e volentieri (ma non sempre) come se fosse ancora maschio. Non c’è dubbio, dunque, che i personaggi migliori siano quelli in cui tali contraddizioni brillano particolarmente: la maggior parte del secondo libro, cioè The Bewitchments of Love and Hate, è dedicata alla famiglia della nobiltà Varr da cui Pellaz e Cal avevano soggiornato brevemente durante il libro precedente; è composta da Terzian, il capo della tribù, il suo compagno Cobweb, salvato da Pellaz e Cal da una ferita mortale e riportato alla corte dei Varr, e il figlio Swift, uno dei primi Wraeththu di seconda generazione. Ma la relazione tra i primi due personaggi, che dovrebbe essere uno dei fulgidi esempi di perfezione Wraeththu, immune da gelosie, dinamiche di potere patriarcali o debolezze umane che privano i rapporti della loro bellezza e li trasformano in catene con cui legarsi a vicenda, sono invece l’esempio perfetto di come questi ex-uomini fatichino a lasciar andare la binarietà che ha caratterizzato tutta la loro vita precedente: Cobweb, dai capelli fluenti alla “maternità” imposta, è in una posizione sociale e politica che fatichiamo a distinguere da quella di tutte le donne del “vecchio mondo” e nel momento in cui cerca di ricavare a corte un potere e una posizione al di là del proprio ruolo i sussurri dei Varr lo bollano come un mistico – anzi, come una strega. In maniera del tutto speculare, Terzian è l’archetipo perfetto del barbaro conquistatore: virile al massimo grado, con capelli corti e fisico scolpito, incapace anche solo di considerare la gravidanza o anche solo il ruolo di soume (chi utilizza le parti “femminili” durante il sesso), si comporta esattamente come farebbe un qualsiasi signore di un feudo con sudditi da da sfamare, terre da conquistare e popoli da sottomettere. Il lento ma inesorabile disfacimento di queste dinamiche di potere, grazie alle scelte di Swift e agli influssi destabilizzanti di Cal, di cui Terzian si innamora perdutamente, costituisce forse le pagine più belle dell’intera trilogia e un altro motivo per cui, se non tutti e tre i libri, almeno i primi due meritano l’attenzione di chiunque sia interessato alle tematiche appena descritte.
Storm Constantine in the flesh. Specifico che questa è una delle sue foto più sobrie, ma purtroppo le altre avevano una pessima risoluzione.
Purtroppo, come ripetutamente accennato, la trilogia è ben lontana dall’essere perfetta. Non mi soffermerò troppo sullo stile di scrittura, che pur cadendo troppo spesso in un lirismo fine a sé stesso e a tratti anche un po’ patetico, mostra quello che deve mostrare e non ostacola attivamente la lettura – non un gran complimento, me ne rendo conto, ma non mi sento di dire nulla di più positivo; tuttavia, i veri problemi che squalificano questa trilogia dall’essere godibile per una fetta non indifferente degli appassionati di fantasy sono quelli di worldbuilding e di scelte narrative della seconda metà dell’ultimo libro, The Fulfilments of Fate and Desire. È evidente che Storm Constantine ha scritto delle vicende dei Wraeththu per parlare di sesso, di relazioni e d’amore, non certo per dettagliare con cura minuziosa una mappa di una civiltà perfettamente coerente, e sono dunque disposta a perdonare una certa quantità di vaghezza e di imprecisione relativamente alle modalità con cui avviene la conquista Wraeththu. Tuttavia, questa quantità viene ampiamente superata in molte parti della trilogia, in cui non è affatto chiaro a che livello di avanzamento tecnologico siano gli esseri umani per non resistere all’avanzata Wraeththu, quanto della tecnologia del vecchio mondo venga perso con la loro presa di potere (e soprattutto perché), o anche solo in che modo funzioni la magia Wraeththu in modalità più specifiche di “perché la trama vuole così”, che spesso conduce ad apparenti incoerenze circa quello che i personaggi sono in grado di fare in qualsiasi momento della storia. Oltretutto, quando Constantine entra più nello specifico circa i dettagli dell’ambientazione fornisce elementi spesso poco coerenti con quello che abbiamo visto fino a quel momento (vedi: le armi nucleari), problema che stride molto con la minuzia con cui è invece in grado di creare religioni, mitologie e usanze, nelle poche occasioni in cui sceglie di focalizzarsi su di esse.
A questi problemi si aggiunge un terzo libro – incentrato sul viaggio di Cal verso un destino mistico che sembra chiaramente fondamentale per l’ascesa dell’intera specie ad un livello superiore di esistenza – che si conclude con una risoluzione anticlimatica e colma di una spiritualità vuota di contenuto che viene invece spacciata come una trasformazione epocale, come se fosse cambiato tutto quando a conti fatti non è cambiato proprio un bel niente; nemmeno le interessanti (seppur limitate nello spazio che occupano) descrizioni delle tribù dello Jaddayoth formatesi a seguito della caduta dei vecchi insediamenti Wraeththu, che alludono a nuove modalità di comprendere l’unione Wraeththu dei principi maschili e femminili, o la ripresa di punti di vista femminili in una chiave assai promettente bastano a salvare quest’ultimo libro dalla mediocrità.
La conclusione inevitabile di questo mio consiglio è quella che ormai accompagna buona parte dei miei post: se il New Weird vi appassiona e volete scoprire uno tra i libri fondanti di questo genere, o se vi affascina l’idea di leggere una delle prime storie fantasy che racconta di genere e di sesso in maniera meno binaria rispetto alla norma del tempo (peggio di LeGuin, d’accordo, ma il confronto è crudele) buttatevi! Magari vi interesseranno solo i primi due libri, che sono comunque abbastanza completi da non lasciare l’amaro in bocca anche se deciderete di fermarvi lì: anche così, buona lettura.
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Chi non ha messo le mani (o gli occhi) su una bella distopia ultimamente? La distopia negli ultimi dieci-quindici anni è diventato un genere accettato dalla cultura mainstream, e l’uso dell’aggettivo “distopico” non spaventa più chi scrive le fascette dei libri o le descrizioni dei film in streaming. Eppure, proprio questa diffusione sembra aver snaturato da una parte il senso della stessa parola “distopia”, rendendolo più vago e sbiadito, un non-genere capace di contenere storie che a ben guardare di distopico hanno poco o nulla. Proviamo a fare mente locale e stabilire cosa si intende per distopia e perché questo termine viene sempre più spesso usato a sproposito.
“Non è solo distopia”
Con l’evolversi della narrativa commerciale e la codifica di confini tra i diversi generi, la distopia è stata tradizionalmente posizionata all’interno della fantascienza: trattando infatti delle possibili evoluzioni della società, si colloca a buon diritto all’interno di quella narrativa speculativa che cerca di indagare le possibili conseguenze di sviluppi scientifici e sociali. Non sono rari infatti i casi di distopie basate sull’introduzione di particolari tecnologie o sulle conseguenze di innovazioni nei rapporti sociali.
È successo però che alcuni grandi classici della distopia (e la menzione scontata è per 1984, Il mondo nuovo, Fahrenheit 451) facessero presa su critica e cultura e finissero così per essere isolati dal più ampio contenitore della fantascienza a cui appartenevano. Per quello strano fenomeno per cui se un libro di fantascienza con qualità letterarie “non è solo fantascienza”, per molti la distopia vive come un genere a sé, forse per la sua più esplicita componente politica che la fa assimilare a letteratura più “impegnata”.
Il peggiore dei mondi possibili?
Ma indipendentemente dalla sua classificazione, quali sono i caratteri fondamentali della distopia? Per essere inquadrata come distopica, una storia deve essere ambientata in un qualche tipo di società distorta, in cui alcuni aspetti poco desiderabili che già si trovano nel mondo sono esasperati e costituiscono la base stessa del potere. Razzismo, sessismo, classismo, fondamentalismo religioso, consumismo, capitalismo, complottismo, scientismo: tutti questi -ismi sono materiale valido per l’impostazione di una società distopica, che di solito prevede l’imposizione di questi valori a tutta la popolazione e un severo controllo affinché nessuno si discosti dai precetti del regime.
Un’altra caratteristica fondamentale ma spesso trascurata è riassunta dall’adagio “l’utopia di qualcuno è la distopia di qualcun altro”. Questo significa che la distopia deve essere in qualche modo seducente: perché un sistema politico si instauri c’è bisogno infatti che ottenga un certo grado di consenso, e quindi è naturale che una parte (maggioritaria) della popolazione creda nei valori del regime. Una storia in cui l’Impero Del Male, Inc. ha conquistato il potere con la repressione e la violenza e mette a morte chiunque sbadigli non può considerarsi una distopia, perché è evidente che un tale sistema non potrebbe mai avere nessuno dalla sua parte.
Si può obiettare che la storia ha dimostrato che regimi del genere sono stati davvero capaci di arrivare al potere e mantenerlo per anni, ma come sempre la realtà dei fatti è diversa dalla realtà narrativa. Lo scopo di una distopia non è lo stesso del giornalismo d’inchiesta che si occupa di indicare le malefatte dei potenti, ma piuttosto quello di suggerire in maniera più sottile come ciò che per certi versi ci può sembrare giusto e auspicabile potrebbe diventare il cardine di un regime capace di privarci della libertà, magari con il nostro pieno sostegno.
In questo senso, come l’utopia ci mostrava il migliore dei mondi per evidenziare le differenze con il nostro, la distopia ci mostra il peggiore dei mondi per mostrarci le affinità con il nostro.
La distopia è roba da ragazzi
Le storie young adult sono in sostanza storie di formazione di adolescenti che prendono coscienza del loro ruolo nel mondo. E quindi quale migliore contesto per esplorare l’angst adolescenziale che quello di una società repressiva? La battaglia del giovane protagonista contro il potere costituito rappresenta quella più universale dell’individuo per affermare la propria individualità nei confronti della famiglia e delle pressioni sociali in generale. Non si può quindi condannare come inappropriato il collegamento tra questi due ambiti della narrativa.
Il problema semmai è stata proprio la massificazione di questo tipo di storie, che ha portato inevitabilmente a un ribasso costante nella qualità e nella densità delle opere. Se Hunger Games si può ancora considerare una buona storia distopica, molti dei suoi emuli si limitano a descrivere le avventure di un gruppo di protagonisti in lotta contro un Impero Del Male, Inc. che ha ben poco di accattivante e non si capisce come eserciti il suo potere visto che tiene in prigione metà della popolazione mondiale. In questo caso si assiste spesso a una reductio ad hitlerum, quel cliché narrativo per cui i cattivi sono cattivi sotto tutti i punti di vista, incarnano tutte le peggiori caratteristiche dell’umanità e si configurano come una rappresentazione nemmeno tanto velata del nazismo hollywoodiano. Gli eroi quindi non possono fare altro che combattere visto che è in gioco la loro stessa sopravvivenza, e di conseguenza manca quella componente di seduzione che la distopia dovrebbe esercitare sui suoi cittadini.
Un altro punto di confusione che si ritrova spesso nelle distopie young adult (ma che poi si è diffuso anche a quelle “per adulti”) è la sovrapposizione fra distopia e postapocalittico: se è vero che da una devastazione globale si può innescare un regime distopico, non basta parlare di un mondo in rovina per ottenere la qualifica di distopia. Infatti un asteroide o un’invasione aliena, un collasso climatico o un attacco zombie non si possono considerare come mezzi tradizionali di costruzione di un sistema politico. Possono esserne la causa scatenante, ma non rappresentano di per sé la condizione sufficiente per parlare di distopia, che invece deve essere una scelta cosciente operata da una parte della società.
Se tutto è distopia niente è distopia
Il problema è che con questo criterio tutto diventa distopia. Poiché non esiste a memoria d’uomo una società perfettamente equilibrata, tant’è che per immaginarle ci siamo inventati appunto l’utopia, va a finire che una qualunque storia ambientata in un qualunque periodo storico o mondo immaginario diventa una distopia. E se tutto è distopia, niente è distopia. Con questa definizione, si potrebbe parlare di distopia anche per X-Files, in cui un governo corrotto nasconde le informazioni ai cittadini; potrebbe essere una distopia Star Wars, perché l’Imperatore ha conquistato il potere e usa la forza per mantenere il controllo; e che dire del Signore degli Anelli, in cui il Signore Oscuro controlla la Terra di Mezzo grazie al potere dell’Anello?
In tutte queste storie è chiaramente presente un livello di conflitto tra gli individui e il mondo di cui fanno parte, ma questo è un elemento di base di qualunque storia. Si potrebbe in alcuni casi dire che certe opere hanno elementi di distopia, così come si può dire che abbiano elementi del thriller o del romance, ma una distopia vera e propria è quella che costruisce la storia proprio intorno all’idea di società disequilibrata in cui il potere si basa su valori distorti.
La distopia del Covid
Negli ultimi mesi la distopia è diventata un trending topic per via delle misure previste per contenere l’epidemia di Covid19. La parola “distopia” così si è affacciata nei titoli dei giornali, nei talk show politici e nei tweet dei capipartito. L’associazione è diventata immediata nel momento in cui le esigenze sanitarie hanno reso necessaria una (discutibile quanto si vuole) limitazione delle libertà personali.
Questo ha portato la distopia nel dibattito pubblico e ne ha ulteriormente snaturato il senso, perché è diventato argomento di attualità e soprattutto di campagna elettorale.
La verità è che, quando mai ci troveremo a vivere all’interno di una distopia, non ce ne accorgeremmo nemmeno. Anzi, probabilmente saremmo i primi a sostenere l’affermazione di questo Mondo Nuovo che non potrà che portare pace e prosperità.
Di Andrea Viscusi -6 Agosto 2020
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Proposte di Vanni Santoni per le classifiche di qualità
Narrativa:
1) Vitaliano Trevisan, Black tulips, Einaudi Stile Libero
2) Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta, Mondadori
3) Giorgio Vasta, Ramak Fazel, Palermo. Un’autobiografia nella luce, Humboldt
4) Tommaso Pincio, Diario di un’estate marziana, Perrone
5) Claudio Kulesko, L’abisso personale di Abn Al-Farabi, Nero
6) Giorgio Falco, Il paradosso della sopravvivenza, Einaudi
7) Wu Ming, Ufo 78, Einaudi Stile Libero
8 ) Ilaria Palomba, Vuoto, Les Flâneurs
9) Olga Campofreda, Ragazze perbene, NN
10) Paolo Giordano, Tasmania, Einaudi
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Saggistica:
1) Silvia Ballestra, La Sibilla, Laterza
2) Nello Trocchia, Pestaggio di stato, Laterza
3) Massimo Palma, Olanda, 1945. Anne Frank e i Neutral Milk Hotel, nottetempo
4) Benedetta Tobagi, La resistenza delle donne, Einaudi
5) Sara De Simone, Nessuna come lei, Neri Pozza
6) Marco Rovelli, Soffro dunque siamo, minimum fax
7) Giulia Caminito, Amatissime, Perrone
8 ) Andrea Cortellessa, Filologia fantastica. Ipotizzare Manganelli, Argolibri
9) Bruno Mastroianni, Storia sentimentale del telefono, il Saggiatore
10) Orazio Labbate, L’orrore letterario, Italo Svevo
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I fratelli Bulgarelli - Il nuovo cortometraggio “Quello che non ti ho detto”
Una visione intima sul tema del rimpianto e della comunicazione
La prima nazionale del cortometraggio “Quello che non ti ho detto” dei fratelli e registi Flavio e Massimo Bulgarelli viene proiettata il 7 ottobre 2024 alla 21esima edizione del Sedicicorto Festival di Forlì. “Quello che non ti ho detto” è stato prodotto da E Elle Produzioni, una società di produzione audiovisiva specializzata nell'offrire servizi di alta qualità. Grazie ad una consolidata esperienza nel settore, il team di professionisti crea prodotti originali in grado di catturare l'attenzione del pubblico e suscitare emozioni ma soprattutto capaci di veicolare in modo efficace contenuti di qualunque tipo. Preziosa la collaborazione con Duende Film che pianta le sue radici nel panorama cinematografico indipendente, dove ha consolidato collaborazioni con registi, attori e sceneggiatori di talento, arricchendo costantemente il patrimonio creativo. Ogni progetto che porta avanti è il risultato di una combinazione unica di esperienza, innovazione e dedizione che porta ad elaborare la creatività su ogni progetto. L’intero progetto è distribuito da Associak, casa di distribuzione cinematografica indipendente nata nel 2012 ed impegnata nella diffusione artistica e commerciale di lungometraggi, documentari e cortometraggi nei principali festival nazionali. Associak vuole essere un punto di riferimento per opere di elevata qualità estetica ed artistica in grado di unire il puro intrattenimento con l’originalità e l’innovazione narrativa. Il protagonista del cortometraggio è Giorgio, un anziano signore che vive solo: degli strani rumori nel suo appartamento rivelano Anna, una giovane ragazza che si muove nel cuore della notte, la più importante della sua vita. L’uomo è tormentato dai rimpianti e questa donna rappresenta l’amore perduto, che riapre le vecchie ferite e rivela le verità nascoste. Giorgio affronta nuovamente il suo passato, fra lacrime e confessioni, accettando il rimorso delle occasioni mancate. "Quello che non ti ho detto" è una disamina sul tema del rimpianto e dell’incapacità comunicativa in una coppia: la generazione di Giorgio, infatti, non ha ricevuto un’educazione affettivo-relazionale e le conseguenze di questa mancanza risultano, purtroppo, evidenti. Con uno sguardo sensibile, il cortometraggio guida attraverso i labirinti del passato, illuminando le sfumature della bellezza e della tragedia che risiedono nei ricordi del grande amore. Attraverso sequenze incantevoli e dialoghi evocativi, “Quello che non ti ho detto” trasporta il pubblico in un universo emotivo intenso e suggestivo, dove ogni gesto e ogni sguardo raccontano una vita, fatta di sogni, di perdita e poi anche di speranza. Un incontro magico, che mescola la dolcezza dell'amore giovanile con il peso della morte, creando un'atmosfera di malinconia e serenità allo stesso tempo. L’opera parla di un tema universale, in grado di arrivare alla maggior parte degli spettatori. La sua forza risiede proprio nella sua capacità di toccare corde emotive comuni a tutti, indipendentemente da background, esperienze personali o provenienza culturale.
Storia dei registi
Flavio Bulgarelli nasce a Roma il 7 settembre 1984. Si laurea in psicologia nel 2011, nel frattempo si avvicina al mondo del cinema creando uno studio horror indipendente che realizza più di dieci cortometraggi destinati al web e virali in alcuni paesi del mondo con più di 1 milione di visualizzazioni. La sua specialità è la sceneggiatura, che ha studiato negli anni con vari professionisti.
Massimo Bulgarelli nasce a Roma il 4 giugno 1996. Diplomato presso l’Istituto per cinematografia e televisione “Roberto Rossellini” come montatore, si dedica in seguito alla direzione fotografia e all’editing. Al momento lavora come assistente alla regia e come videomaker.
Cresciuti con le stesse influenze cinematografiche di commedia all’italiana e cinema internazionale, Flavio e Massimo trovano un punto di forza proprio nei 12 anni di differenza che li rendono capaci di “parlare” sia ad un pubblico adulto che ad un pubblico più giovane. Doppio Gioco, è stato il loro primo cortometraggio, una commedia all’Italiana 2.0 sul tema della ludopatia. Singolarmente, ma sempre facendo appoggio l’uno sull’altro, hanno scritto e diretto altri cortometraggi di fantascienza come Senza Parole o Lo Spazio sulla Terra.
Instagram: https://www.instagram.com/fratellibulgarelli/
Duende Film
https://www.instagram.com/duende_film
E ELLE Produzioni
https://www.instagram.com/eelleproduzioni
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La Volpe di Londra di Laura Usai: Un'Avvincente Caccia nella Londra Vittoriana. Recensione di italianewsmedia.com
Laura Usai ci trascina nel cuore oscuro di Londra con un thriller intrigante, tra indagini, inganni e un nemico pericoloso
Laura Usai ci trascina nel cuore oscuro di Londra con un thriller intrigante, tra indagini, inganni e un nemico pericoloso La Volpe di Londra, romanzo di Laura Usai, è una lettura coinvolgente ambientata nella Londra vittoriana, tra i vicoli oscuri di Whitechapel. La storia segue Volpe, un’investigatrice al servizio di un misterioso Circolo, che si trova a fronteggiare un avversario temibile…
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Sono sempre un po' scettica davanti alle accuse alla borghesia, classe sociale certamente piena di difetti, ma non peggiore del "popolo" cui romanticamente si vorrebbe assegnare qualità eroiche in contrasto alla meschina borghesia. Capisco, del resto, che dopo due secoli di discorso eroico della borghesia (da Robinson Crusoe al Positivismo), fosse tempo di cambiare narrativa, ma ogni narrativa porta con sé una parte di menzogna. Tuttavia, ci sono tanti spunti preziosi e interessanti sia in questa intervista che nel film; anche se non se ne facesse una critica di classe, è comunque una storia acuta che indaga il male come si può manifestare nella persona comune che, all'epoca ed ancor oggi, è, appunto, borghese. Del resto, il nostro cinema di quegli anni non fu sempre assolutorio con altre classi: ricordo Brutti, sporchi e cattivi con Nino Manfredi. Sono sinceramente curiosa di sapere perché Sordi parla di una società che è diventata violenta; leggendo Pasolini o, più a monte, Verga ed altri autori che non abbiano nascosto la brutalità della vita dietro pietose maschere (De Sade, per esempio, anche se lui esagerava molto e se ne compiaceva) non mi pare che le società precedenti fossero molto più illuminate. Tuttavia, qualcosa deve essere accaduto, nella percezione di chi aveva visto e vissuto il mondo prima e dopo la guerra, che poteva portare davvero a dire quel che dice Sordi, uomo sempre molto acuto e misurato nei suoi giudizi e che purtroppo non è più qui per poterci spiegare il suo punto di vista.
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The Last of Us: Un viaggio sofferto ma che vale la pena compiere
The Last of Us è risultata essere la serie più attesa del 2023 e inevitabilmente quella che rientra tra i titoli più gettonati nel prossimo futuro, uno di quei titoli di cui si è parlato e si parlerà con ancora più passione e insistenza per diversi motivi: prima di tutto perché il videogioco a cui si ispira è uno di quelli che ha lasciato il segno, sia nel suo settore che nell'immaginario popolare, diventando uno dei titoli più noti e apprezzati da parte del pubblico, videogiocatori e non; in secondo luogo perché rappresenta il tipo di gioco a cui si presta sempre attenzione, essendo formato da una componente narrativa e cinematografica molto marcata e costruita in modo magistrale; infine, ma non per ultimo ma non meno importante, si tratta di una produzione HBO, che è da sempre sinonimo di qualità e di un certo tipo di televisione che sa coniugare alla perfezione autorialità e appetibilità per il pubblico.
The Last of Us: un'immagine dal teaser trailer della serie HBO
Mi sono approcciata alla serie di The Last of Us, carica di speranze, curiosità, ma anche timori, perché è facile disattendere le aspettative quando sono molto alte, ma anche per la difficoltà intrinseca di un progetto del genere che deve necessariamente parlare a due tipi diversi di pubblico: quello televisivo che può essere a digiuno del materiale di partenza e quello che ha già vissuto questa storia pad alla mano, a cui è più difficile proporre le stesse suggestioni senza il valore aggiunto dato dal partecipare in prima persona all'azione. A conti fatti, e dopo aver guardato tutti i 9 episodi che compongono la prima stagione che adatta il primo dei due giochi, posso dirmi soddisfatta del risultato.
Di che parla The Last of Us?
Ma da che spunto prende il via la trama di The Last of Us? Cercando di non fare spoiler ma accenando giusto qualcosina per chi non ha avuto modo di provare il video gioco di Naughty Dog del 2013 o nel più recente remake per nextgen del 2022: ci muoviamo in un mondo post-apocalittico, in cui la razza umana ha già perso la sua battaglia contro un agente patogeno, che proviene dai funghi e rende gli infetti simili a zombie, è stata decimata e vive in piccole comunità che cercano di riorganizzarsi. Un contesto oramai già consolidato, perché dall'esplosione della pandemia e dal prologo della serie sono passati ormai vent'anni, e sullo sfondo di questa nuova umanità seguiamo Joel, cinquantenne ormai disilluso e con una forte ferita emotiva alle spalle, che si ritrova a dover fare una consegna particolare: Ellie, una ragazzina di quattordici anni.
The Last of Us: Pedro Pascal e Bella Ramsey in una scena della serie
I due si trovano a dover viaggiare lungo gli Stati Uniti per raggiungere la destinazione, mettendo alla prova il loro rapporto interpersonale che si andrà definendo lungo il cammino, per superare quelle inevitabili diffidenze che albergano nel cuore di entrambi, in quello di Joel ferito da una grave perdita vent'anni prima così come in quello di Ellie, adolescente che ha avuto la sua dose di dolore e non ha mai lasciato il recinto (relativamente) sicuro della zona di quarantena. Un viaggio lungo, duro e denso di pericoli e incontri di ogni sorta che metterà alla prova e segnerà entrambi per sempre.
Da un media all'altro, gli inevitabili cambiamenti
The Last of Us: un momento di tensione della serie HBO
Questa in sintesi la storia del gioco The Last of Us che la serie HBO riprende non senza le dovute modifiche e riscritture nel passaggio da un media all'altro: quello che funziona quando è lo spettatore, ovvero il giocatore, ad agire in prima persona non è detto che funzioni nell'essere solo osservatore passivo dell'azione ed è uno dei motivi che hanno portato a non eccedere sul fronte action, perché avrebbe snaturato l'approccio character driven del gioco. Alcuni di questi cambiamenti riguardano svolte narrative, altri sono fatti a monte, in fase di ridefinizione della storia a dieci anni dal debutto, e uno di questi, per esempio, è il mezzo con cui l'infezione si trasmette, non più veicolata attraverso le spore che costringevano i personaggi del gioco a indossare in determinati luoghi chiusi delle maschere, che avrebbero costretto a nascondere in alcune situazioni i volti degli attori, ma attraverso dei viticci e, in modo più tradizionale per il genere, il morso. Si rinuncia quindi all'originalità e le potenzialità narrative di un espediente fuori dal comune per trasmettere ed evocare il pericolo, ma se ne introduce un altro ugualmente interessante. In definitiva non cambia molto ai fini pratici nella costruzione ed evoluzione del racconto.
Raggiungere un nuovo pubblico, espandere un mondo
The Last of Us: una scena
Quello menzionato sopra è solo un esempio del modo in cui The Last of Us nella sua versione seriale diverge da quanto già vissuto dai videogiocatori, in una costruzione narrativa che vive della necessità e difficoltà di evocare e rispettare l'originale, ma propone anche elementi che possano stupire e stimolare gli spettatori già a conoscenza della storia. Una difficoltà comune a questo tipo di adattamenti, che ad esempio gli autori di The Walking Dead avevano aggirato con efficacia nel passare dalla carta allo schermo, mantenendo dinamiche simili ma non sempre relative ai medesimi personaggi. Nel caso dell'adattamento di The Last of Us si è scelta una via differente che passa anche per un approfondimento della mitologia della serie: si dà più spazio al passato, come si può intuire già dalla primissima sequenza del primo episodio, dando allo spettatore qualche informazione in più su come si è arrivati alla situazione che fa da sfondo al viaggio di Joel ed Ellie, ma si aggiunge anche qualche deviazione dal flusso principale della storia per dar più profondità alle figure che i protagonisti si trovano a incrociare sul loro cammino, che diventano piccoli spaccati di vita vissuta nel mondo pandemico della serie.
The Last of Us: Pedro Pascal e Anna Torv in una scena
Si snellisce così il viaggio nel suo complesso per evitare di girare narrativamente a vuoto e proporre troppi episodi in cui la storia progredisce poco dal punto di vista pratico: già così, dopo un inizio di grande impatto. Si è scelta, quindi, la strada della linearità e sintesi per quanto riguarda la costruzione della storyline principale, evitando di proporre una sequenza di scontri tra i protagonisti e gli antagonisti di turno al solo scopo di mettere in scena ulteriori sequenze d'azione e allungare il brodo.
Joel ed Ellie
Ti possono tradire solo quelli di cui ti fidi
Una scelta che sulla lunga distanza abbiamo apprezzato, ma che avrebbe rischiato di spostare troppo l'equilibrio della serie rispetto al gioco, il cui cuore narrativo e tematico sono Joel ed Ellie, vero punto di riferimento per i giocatori: The Last of Us era la loro storia e riducendo il tempo in loro compagnia, anche a fronte di inserti mirati a raccontare e dar spazio a ciò che li circonda e che incrociano, rischiava di far perdere il focus del racconto. Un rischio evitato da uno dei principali meriti della produzione HBO guidata da Craig Mazin (già autore di Chernobyl per lo stesso canale cable americano) e lo stesso Neil Druckmann: Pedro Pascal e Bella Ramsey, gli interpreti dei due protagonisti nella serie. Se la storia del The Last of Us seriale resta così viva ed emozionante anche in questo adattamento è perché i due interpreti regalano una prova di grande efficacia. Pedro Pascal è un Joel smarrito nel suo dolore, ma solido e deciso dove serve; Bella Ramsey propone invece una Ellie differente da quella a cui ci siamo legati nel gioco Naughty Dog ma ugualmente autentica e viva. Soprattutto, funzionano insieme nel mettere in scena le dinamiche interpersonali che poco per volta si sviluppano tra i rispettivi personaggi, quella fiducia da conquistare per dar vita al legame che vediamo nascere e consolidarsi in modo graduale ma inequivocabile. Il viaggio in loro compagnia è così coinvolgente ed emozionante, capace di guidarci con partecipazione d'animo verso la loro destinazione e un riuscito finale di stagione, anche laddove l'azione latita e ci si limita a seguirli nei loro spostamenti e le loro chiacchierate, anche quando non si va oltre lo star seduti attorno a un falò.
Il livello produttivo HBO si conferma per The Last of Us
Si nota, come sempre, l'elevato livello produttivo di casa HBO, nella (ri)costruzione di un mondo post-apocalittico in grado di risultare d'impatto oltre che coerente con quanto già noto a chi ha giocato l'originale: Joel ed Ellie attraversano sì luoghi desolati e desolanti, fatti per lo più di ampi spazi e poche reliquie della nostra umanità, ma anche città abbandonate a loro stesse che, soprattutto in alcuni scorci dei primi episodi, colpiscono per dettaglio e portata. Il rischio di già visto è dietro l'angolo, perché non è la prima serie che ricalca questo tipo di ambientazione, ma è bilanciato da alcune location particolarmente riuscite e ricche di dettagli in termini di scenografie, come il centro commerciale che fa da sfondo a una delle sequenze più riuscite.
The Last of Us: una scena della serie
La differenza, però, la fa ancora una volta l'accompagnamento musicale, quella splendida colonna sonora firmata da Gustavo Santaolalla che già avevo amato nella controparte videoludica e che si mantiene ugualmente efficace e toccante nel fungere da filo conduttore e contrappunto emotivo per la traduzione targata HBO di quel mondo allo sbando in cui i protagonisti si trovano a dover sopravvivere.
In conclusione The Last of Us nella sua incarnazione seriale funziona ed emoziona. Le poche perplessità che avevo sono state bilanciate da due importanti elementi: da una parte le interpretazioni dei due protagonisti, con Pedro Pascal e Bella Ramsey che danno vita a dei Joel ed Ellie vivi e vissuti, coerenti con gli originali seppur personali; dall’altra la conferma del valore aggiunto della colonna sonora di Gustavo Santaolalla, efficace a supporto delle immagini della serie quanto lo era stata per l’azione e le emozioni del videogioco.
Perché mi piace 👍🏻
Pedro Pascal e Bella Ramsey, vero punto di forza della serie, che riescono a dar vita a Joel ed Ellie e alle loro dinamiche in modo coerente eppur personale.
La colonna sonora di Gustavo Santaolalla, vero e proprio valore aggiunto del videogioco ed ora anche della serie HBO.
Il livello produttivo HBO, che si conferma elevato anche in questo caso e cerca di aggirare la sensazione di già visto, inevitabile per un’ambientazione post-apocalittica.
L’approccio al racconto, che sceglie di approfondire il mondo in cui ci si muove guardando oltre Joel ed Ellie senza perdere l’importante focus narrativo sulla coppia di protagonisti…
Cosa non va 👎🏻
… ma riduce di molto l’azione rispetto a quanto accadeva nel videogioco, prestando il fianco alle critiche di una parte di spettatori.
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Amori, lettura e scrittura in estate al lago
Estate al lago Amori, lettura e scrittura in estate al lago, un articolo che analizza il romanzo Estate al lago di Alberto Vigevani, con un estratto di alcune pagine del testo. Attorno agli anni '90 avevo trovato allegato ad una rivista, in omaggio, il libro Estate al lago di Alberto Vigevani e benché non fossi un grande amante dei romanzi, visto che non potevo andare in vacanza e poiché in gioventù avevo trascorso spesso delle giornate estive sul lago di Garda, benché in questo caso si trattasse del lago di Como, memore di qualche rifermento ai Promessi Sposi del Manzoni, decisi di leggerlo. Il lago in ogni caso ha comunque un fascino particolare, e come dicevo anch'io ho trascorso in questi ambienti un bel po' di giornate, prima con mia mamma che mi accompagnava per andare a pescare attorno ai 12-13 anni, nelle acque di Salò, Maderno, Desenzano, poi con i miei amici negli anni turbolenti della mia adolescenza, principalmente a Toscolano Maderno, Manerba, Padenghe, e poi ancora sul Lago d'Idro, e infine ancora con mia mamma alle terme di Sirmione. Ora a distanza di più di trent'anni da quel periodo e a ben 66 anni dalla pubblicazione del libro avvenuta nel 1958, ho deciso di dedicargli questo articolo, anche perché, visto che siamo in estate e la gente in genere legge sempre meno, mi sento di affermare che leggere "Un'estate al lago" di Alberto Vigevani è come concedersi una vacanza letteraria, ricca di emozioni, riflessioni e bellezza. Direi per prima cosa che consigliare questo romanzo, snello ma succulento, significa suggerire un viaggio emozionante nella nostalgia e nella bellezza del passato. Ed ora vi elencherò diversi punti per cercare di convincere qualcuno a non perdere questa occasione letteraria. 1) Vigevani è un maestro nel creare atmosfere che trasportano il lettore direttamente nelle calde estati italiane, tra paesaggi lacustri incantevoli e la quiete della natura. 2) I protagonisti del romanzo sono descritti con una profondità psicologica che permette al lettore di immedesimarsi nelle loro vite e nei loro sentimenti. Le loro storie e interazioni sono il cuore pulsante del libro. 3) La prosa di Vigevani è elegante e poetica, rendendo la lettura un'esperienza estetica oltre che narrativa. La sua capacità di descrivere i dettagli con delicatezza e precisione arricchisce ogni pagina. 4) Il romanzo esplora temi come l'amore, la memoria, la perdita e la ricerca di sé, offrendo spunti di riflessione che risuonano profondamente con i lettori di ogni età. 5) Ambientato negli anni '30, "Un'estate al lago" offre un affascinante spaccato di un'epoca passata. Vigevani riesce a catturare l'essenza del tempo e del luogo, permettendo al lettore di vivere un pezzo di storia italiana attraverso gli occhi dei suoi personaggi. 6) Il libro è pervaso da una dolce nostalgia, che invita il lettore a riflettere sulla propria infanzia e sui ricordi estivi. Questa introspezione rende la lettura profondamente personale e toccante. 7) "Un'estate al lago" è stato accolto favorevolmente dalla critica, che ne ha lodato la qualità narrativa e la profondità emotiva. È un'opera apprezzata sia dai lettori che dagli esperti letterari. 8) La descrizione dei paesaggi, delle giornate estive, e delle piccole gioie quotidiane crea un'esperienza immersiva che consente al lettore di "vivere" l'estate al lago insieme ai personaggi.
Alberto Vigevani Alberto Vigevani (1918-1999) è stato uno scrittore, poeta ed editore italiano. Nato a Milano, si distinse per la sua produzione letteraria caratterizzata da una prosa elegante e malinconica. Oltre a numerosi romanzi e racconti, Vigevani pubblicò poesie e si dedicò all'editoria, fondando la casa editrice Il Polifilo, specializzata in libri d'arte e di alta qualità tipografica. Le sue opere riflettono spesso la nostalgia per un mondo perduto e la complessità delle relazioni umane. Vigevani è ricordato come una figura importante nel panorama culturale italiano del XX secolo. Oltre a Estate al lago ha pubblicato Un’educazione borghese; La casa perduta; L'abbandono; La breve passeggiata. Ha ottenuto, tra altri, il Premio Bagutta. Estate al lago. L'estate era stata diversa da quelle passate: le ultime vacanze dell'infanzia. Era maturata per Giacomo una nuova età: dalla suggestione dei sensi alle delicate immagini del suo amore puerile. Tutto si poteva dire in silenzio e tutto si scioglieva in contemplazione. Come ha scritto Geno Pampaloni nell'introduzione al testo, la verità del libro è in questo attimo di sospensione vitale, in questo (doloroso e insieme corroborante) diritto al segreto di fronte alla violenza della realtà. E, la sua, una sospensione magica, illusa e labile com'è proprio dell’adolescenza. Ma non è solo sua: è anche l’illusione ansiosa del silenzio e della contemplazione, quella lieve vertigine fatta di insicurezza, di angoscia e di nostalgia che caratterizzò la cultura europea tra le due guerre al cospetto delle dittature e nell’imminenza della tragedia. Pampaloni spiega molto bene la natura del romanzo e tutti i suoi risvolti, come si evince da queste sue riflessioni. " Intendiamoci. La qualità poetica del racconto del Vigevani attinge a una cultura riflessa. Tutto è già alle sue spalle. «Tutto è accaduto», come dice un titolo di Corrado Alvaro, che sentì come pochi altri scrittori, con intelligenza amara, la transizione esistenziale propria del nostro tempo. Non per nulla Alberto Vigevani è libraio antiquario, ed è editore di testi preziosi e dimenticati della più raffinata tradizione, quasi che la sua vocazione di uomo sia dedicata al recupero, all’assaporamento di valori non mercificabili, alla fedeltà della memoria. Dietro di lui scrittore si staglia la grande ombra di Proust, il fascino della grande borghesia colta, intenta a cogliere l’ultima essenza di un mondo stremato dai suoi stessi valori... Perciò, contrariamente allo schema usuale, per cui l'adolescente passa dalla innocenza alla torbida scoperta del sesso, egli supera abbastanza rapidamente l’accensione sensuale, e sublima la sua ricchezza affettiva in un amore impossibile per la bionda e gentile madre del suo compagno di giuochi. Ma ecco che qui racconto d’amore e storia di un’educazione sentimentale si saldano.
Lago di Como in estate Che cosa rivela a Giacomo l’incontro con la giovane donna e il suo figliolo malato e ardente? 1. La forza della passione, così profonda e coinvolgente da risultare rasserenante anche se dolorosa; 2. L’« armonia e tenerezza» che unisce madre e figlio in un legame meraviglioso, compatto, inscindibile; 3. L'ambiguità della figura materna, ove si mescolano la dolcezza sensuale e il tepore protettivo, oscuro modello e | presagio di un’ambiguità esistenziale che accompagna l’intera vita; 4. La gioia pura e malinconica della bellezza, che invita al silenzio e alla contemplazione; 5. Gli rivela infine la possibilità stessa della rivelazione dell’io profondo, vertiginosa «come se si trovasse sull’orlo della propria vita ». Tutto questo lo prepara all’intuizione finale: «com'era complesso l’amore; non solo desiderio d’armonia, di bellezza, ma anche aspirazione a non esistere più, ad annientarsi. E ancora: vi era qualcosa di crudele, d’irrimediabile, qualcosa che non si sarebbe nemmeno potuto confessare, anche se lo avesse veramente compreso ». Questo è, mi pare, il tratto originale del personaggio (e del libro): la perdita dell’innocenza, momento fatale di ogni adolescenza, si trasforma, come in dissolvenza, nella consapevolezza della complessità dell'amore, con tutto ciò che di ambiguo, di doloroso, ma anche di certo e, in qualche senso, di supremo, tale consapevolezza porta con sé. Mentre si chiudono, tra le prime piogge e i colori spenti dell'autunno, le «ultime vacanze dell’infanzia », l'educazione sentimentale di Giacomo può dirsi compiuta, ma nel senso che il velo d’ombra di un’incompiutezza infinita si proietta a occupare ogni possibile futuro. Il crepuscolo di adolescenza, la lacerazione tra innocenza e maturità, che egli ha vissuto nell’estate al lago, è destinata a durare per sempre. Ma si capisce che, avviandosi ignaro verso i tempi della violenza e della devastazione che si affacceranno alla storia, egli entrerà nella vita non sotto il segno della conquista ma sotto il segno della poesia." Ma ora lasciamo lo spazio ad alcune pagine del libro. I primi giorni di vacanza seguirono rapidi, come una febbre che accalori le guance e svanisca lasciando una stanchezza, un senso di sonnolenza, e ancora fame di nuova stanchezza e di sonno. I cugini erano arrivati: l’Elisa, gentile e non bella, dal corpo pesante, la fronte a bauletto sporgente sopra gli occhi; Aldo, che aveva l’età di Stefano e dipingeva all’acquarello; Mario, un ragazzo calmo, maggiore di Giacomo di due anni. Stavano sempre insieme: nuotavano, andavano in barca, a volte salivano sulla strada di Porlezza, dov'era una valle segnata da un fiumiciattolo incassato, il Senagra. Altre partivano per Cadenabbia o, dalla parte opposta, per Acquaseria e Gravedona, in bicicletta, con la merenda al sacco, e dopo aver fatto il bagno si riposavano sui prati. Formavano una compagnia allegra, con altri giovani che s'erano aggiunti: la bruna che Stefano aveva conosciuto al Lido, Elsa, figlia del padrone dell’albergo Victoria, e il fratello, un giovane basso, il tuffatore migliore della spiaggia, che anche fuori portava una calottina rossa sui capelli impomatati. Poi le due ragazze Lanfranchi, già da Milano amiche dei cugini: la maggiore slanciata, con occhi verdi luminosi; la minore, grassottella e addormentata, con gli stessi occhi, ma sbiaditi e gonfi, che le davano l’espressione attonita di un pesce... Giacomo aveva scoperto per conto suo che l’Elsa non era tutta muscoli, ma d’una bellezza così piena e persuasiva che se ne sentiva attirato. Tuttavia la sua inclinazione non andava oltre il piacere degli occhi e quel senso di vergogna che lo istupidiva se gli capitava di rimanere solo con lei. La presenza di Clara, d’altra parte, riusciva a rendere leggera l’aria che li avvolgeva, nulla in essa s’incideva con troppa asprezza, appena vi si accennavano le amicizie ancora incerte. L’Elisa e la minore delle Lanfranchi divennero inseparabili, Mario stava insieme con Giacomo che era il più giovane ma non stonava in mezzo agli altri, in quei primi giorni in cui tutto scaturiva con spontaneità, come se per le vacanze fossero tornati ragazzi anche i grandi. Forse non badavano alla differenza di età, o lo ammettevano perché li faceva ridere con uscite in cui, incitato dal desiderio di farsi notare, caricava il suo senso dell'umorismo di una capacità d’invenzione che si smentiva di rado. Le zitelle che aveva spaventato in bicicletta erano divenute dei personaggi, così Antonio, il custode, di cui rifaceva la voce e imitava i discorsi farciti d’interiezioni, di proverbi detti a sproposito. Ma forse erano gli altri, a completare o ad accrescere il ridicolo dei suoi accostamenti, delle trovate che gli nascevano spontanee dal troppo parlare, quando si eccitava: la verità era che avevano voglia di ridere, di sentirsi disinvolti e spensierati prima d’addentrarsi nel terreno sfuggente e sconosciuto delle nuove amicizie.
Cartina del lago di Como Finirono anche quei giorni d’attesa: Stefano ora lo respingeva, se gli andava vicino mentre aveva al braccio l’Elsa; rispondeva a monosillabi. Durante le gite Giacomo e Mario restavano indietro. Prima, avevano tutti riso delle sue immagini, si era sentito ammirato dalle ragazze, invidiato da Mario, in brevi momenti di esaltazione che lasciavano adesso il posto a un risentimento. Supponeva d’essere condannato a portare i calzoni corti in eterno, come un segno d'’inferiorità. Tra loro due e i grandi duravano lunghi silenzi, le parole di Giacomo cadevano senza che nessuno le raccogliesse, e a un tratto s'’accorgevano che i giovani camminavano avanti, sulla mulattiera lungo il monte, o rimanevano solo loro sulla spiaggia, mentre gli altri se n'erano andati in barca senza chiamarli. Li ritrovavano poi che ballavano nella sala a pianterreno della villa o all’albergo Victoria... Presto arrivò luglio. Negli alberghi si davano i primi balli: la stagione vera sarebbe venuta a settembre. Clara si metteva in abito lungo e veniva a farsi ammirare prima di uscire. Stefano vestiva lo smoking e Giacomo gli faceva compagnia mentre si preparava in bagno e annodava la cravatta davanti allo specchio. Forte e giovane, le sopracciglia folte, gli occhi vellutati e scuri uguali a quelli del padre, pareva lontano come mai, e proprio nel momento in cui gli offriva maggiore confidenza. Delle feste parlavano a tavola, il giorno dopo. Gli rimanevano nella mente episodi e nomi di persone, uditi nei discorsi dei fratelli, con il prestigio delle cose inaccessibili. Se la festa era a Menaggio, andava con le domestiche a vedere l’entrata dai cancelli. L’Emilia gli metteva una mano sulla spalla; diceva: «Ti piacerebbe vestirti da sera, ballare anche tu? »... A metà d’agosto il padre tornò per fermarsi una settimana. Giacomo quasi non s’accorgeva di lui. Gli era toccato ancora deluderlo: non aveva mai adoperato gli attrezzi e aveva fatto pochi progressi nello studio. Si sentiva in colpa, guardandolo: come provasse il sentimento che il padre fosse, senza sospettarlo, esposto a subire le conseguenze di ciò che a un tratto poteva insorgere nel suo animo. Gli appariva incapace di difendersi, nell’abito di tela un po’ ottocentesco, con la camicia di seta cruda aperta sul collo e il leggero copricapo di panama che sbiancavano ancor più la sua carnagione cittadina. Del resto non stavano mai insieme: usciva con la madre a visitare parenti o conoscenti che poi venivano a prendere il tè in giardino. A Giacomo sembrava che tra loro due qualcosa fosse già cambiato. Forse temeva per il suo segreto, quando gli occhi del padre si posavano sopra di lui, schiariti da un’ironia dolce e penetrante che avrebbe voluto sfuggire. Eppure, durante il giorno, tra Giacomo e l’Emilia tutto si svolgeva come prima, di nuovo non c'era che la carezza più ardita, le poche sere, ormai, che andavano a passeggio insieme. Spesso lei voleva uscire con l’Elvira, dicendo che si recavano al cinema, dove lui non poteva seguirla. Incontrandolo, sorrideva sempre, lo sfiorava col fianco come per scherzo, forse per vedergli in faccia il turbamento che non riusciva a nascondere. Era come fosse per abbandonarsi a piangere, e non potesse trovare comprensione se non in lei che già mostrava di evitarlo. Ma la notte, prima di addormentarsi, era diverso: come un appuntamento, ogni volta si ripeteva il lungo istante in cui, col respiro disordinato, il capo fitto nel guanciale, brancolava sopra un’immagine di lei oscura e avvincente. Se la raffigurava nuda, nella sua ricchezza segreta, lambita dal buio, le spalle e il petto candidi in luce, il ventre affondato in una macchia. Confusa e incerta ossessione, come confuse e incerte le reminiscenze, il negativo del nudo tra le rocce finte, i corpi femminili alla spiaggia, ogni nutrimento anonimo e frammentario della sua fantasia. A sfiorare quella immagine con una carezza, qualcosa entro di lui si rompeva in una breve liberazione che lo lasciava intontito e vergognoso. Infine una sera, appena partito il padre, che tutti erano usciti - l’Elvira aveva voluto andare al cinema da sola -, udì il passo dell'Emilia nella stanza che occupava all’ultimo piano, sopra la sua. Giacomo aveva già un poco dormito e quei passi gl’illuminarono d’improvviso la figura di lei, i suoi gesti mentre andava spogliandosi. Gli pulsavano le tempie; senz’accorgersene si trovò fuori della porta. Salì le scale nell’oscurità, cercando di non far rumore. Si sentiva un ladro, temeva che qualcuno potesse sorprenderlo. Una striscia di luce bagnava il pianerottolo, da sotto la porta. Non udiva nemmeno più il passo della donna. S’appoggiò alla maniglia, la porta cedette. Dalla finestra ovale entrava la luna e illuminava il letto. Il suo volto era quasi al buio: pareva ancora più pallido. Vide che i suoi occhi lo fissavano. « Giacomo », disse a bassa voce, « sei tu? ». Siccome non si muoveva, rigido contro la porta, il cuore che gli batteva di furia, lei riprese, con una voce alterata che sembrò una carezza: «Vieni qua». Andò verso il letto in punta di piedi. Si muoveva in quella luce quasi irreale come in una delle apparizioni che venivano a sorprenderlo la notte, quando non riusciva a dormire. Lei gli prese i polsi, l’attirò a sé. Piegando le ginocchia contro la sponda del letto, premette la guancia sulla spalla nuda. Il suo profumo lo confondeva. Dietro la testa di lei, sopra il candore del guanciale colpito dalla luce, i capelli sciolti addensavano un bosco oscuro e segreto da cui si staccava il suo volto smorto, senza più quel sorriso che sempre lo pungeva, sulle labbra adesso aride e schiuse. Gli occhi, scintillanti, sembravano vetri in cui la luce acquistasse profondità.
Grand Hotel Victoria Liberò le mani per cercarle il seno: annaspavano contro la tela un po’ ruvida della camicia. Fu lei a offrirglielo, scostando la spalla, e gli sembrò che bruciasse; poi quel fuoco gli entrò nella pelle. Lo palpava intero senza sapere dove indugiare. Si riempiva le mani della ricchezza che lei gli aveva ‘nascosto, e non cedeva alla carezza ripetuta ma la chiamava ancora, rinnovandogli come uno spasimo. Era entro un sentiero buio che lo faceva trasalire, e morbido, in cui ritrovava pungente l’odore dei capelli che gli coprivano le guance, la fronte. Un alito resinoso di terra e di donna che pareva quello del suo sangue. «Giacomo », aveva detto, due, tre volte, irosamente, gli era sembrato, muovendo il petto per svincolarsi. Ma s’avvinghiava a lei come se dovesse spremere, succhiare tutto il profumo e il calore che emanava. Poi gli si abbandonò, ansimante. Gli aveva cercato la bocca, la mano, ma appena raggiunte si era scossa, l’aveva allontanato con violenza, accendendo la piccola lampada sul tavolino. Era rimasto in fondo al letto. La fissava, nella debole luce elettrica, i capelli e la camicia in disordine, il volto quasi cattivo, mutato, con le labbra tremanti e tumide. La sua bellezza pareva a un tratto non più lontana, ossessiva, ma come rozza e affranta. Il torpore lo avvolgeva, allontanando ogni cosa nel tempo: si sentiva quasi spettatore di quel suo risveglio. Vide il seno scomparire nello scollo e gli parve una macchia, un fiore raggrinzito, la punta violacea che esitò un istante sull’orlo della camicia. Contrastando con la pelle chiara del petto somigliava a un oggetto immaginato nel sogno, che alla luce reale stupisca. Anche i suoi occhi erano diversi: lo sfuggivano come fosse lei, ora, a provare vergogna e a temere il suo riso. Gli pareva anche un'illusione il sussurro, quasi un gemito, che aveva colto sulle sue labbra. Si era seduta e aveva preso il pettine. Mentre ravviava i capelli si tolse la forcina dalle labbra e disse, a bassa voce: «Ti voglio bene, però sei un bambino ». Parole così fragili gli avevano fatto l’effetto che le avesse pensate, più che dette. Non capiva perché tornava ora un bambino, quando per un lungo momento era stata lei a soffrire sotto il suo abbraccio, e le sue labbra avevano perduto ogni voglia di sorriso. Read the full article
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TROPPI LIBRI
“Nell’ultimo decennio, anche a causa di decisioni prese in sede distributiva, molte cose sono cambiate nel mercato del libro. La sovrapproduzione è la più evidente e discussa, ma il lettore avveduto si sarà accorto anche della mutazione di quelli che sono considerati i “mesi buoni” per le uscite. Prima, la primavera era il massimo; poi la “data ideale” (se mai esiste) ha cominciato ad arretrare fino a inizio anno, e infine anche i mesi autunnali sono diventati ambiti, dando vita a una situazione simile a quella francese, dove si parla infatti di rentrée, per l’invasione di titoli che ha luogo in libreria tra settembre e ottobre. Il risultato è che un sacco di cose interessanti escono assieme, e il lettore ha una certa difficoltà a decidere da dove cominciare, mentre i libri si accumulano non solo sul comodino ma anche sulla scrivania, per terra, in cucina...“ Con queste parole Vanni Santoni, curatore della rubrica dei libri su “Linus” di novembre, inizia l’articolo sui libri del mese. Dinamiche editoriali a parte, Santoni, per altro sempre attento e circostanziato nelle sue recensioni, sembra non voler spingersi a pronunciare il giudizio che molti lettori (non occasionali), ormai hanno maturato: la maggior parte dei libri che vengono pubblicati sono spesso di qualità mediocre, forse anche meno che mediocre e qualche volta vera spazzatura. Non sarà certo questo il motivo per cui in Italia si legge pochissimo poiché fortunatamente ci sono tantissimi volumi di qualità eccelsa, ma è certo che le uscite davvero importanti non superano il numero di una ventina l’anno (comprendendoci tutto, saggistica, narrativa, ecc. testi scientifici a parte). Insomma, per farla breve, c’è troppa gente che scrive e quasi tutti scrivono male, in maniera stereotipata, una scrittura falsa, scrivono nel modo in cui pensano che i lettori vogliano leggere, sono “scriventi” (chiamarli scrittori sarebbe davvero troppo), autoreferenziali, boriosi, egocentrici. È passato qualche decennio da quando Gomez-Davila scrisse un celebre e quanto mai attuale aforisma: “La letteratura non finirà quando non scriverà più nessuno, ma quando scriveranno tutti”. Ecco, ci siamo quasi…
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Lady Oscar Festeggia il Suo 50° Anniversario: Scopri la Leggenda Rinasciuta e Leggi Gratuitamente il Manga Iconico!
In un universo manga in continua evoluzione, poche opere riescono a mantenere il loro fascino per cinque decenni, eppure "Lady Oscar" (Rose di Versailles) è riuscita a farlo con una grazia e una magnificenza senza pari. Questo capolavoro di Riyoko Ikeda, lanciato per la prima volta nel 1972, ha incantato lettori di tutte le generazioni con la sua trama avvincente che mescola storia, romanticismo e avventura. Immaginate di immergervi di nuovo nelle intricate trame della corte francese e nel tumulto della Rivoluzione, vivendo ogni emozione e intrigo attraverso le pagine di questo manga immortale, e tutto ciò senza spendere un centesimo! Il 50° anniversario di "Lady Oscar" non è solo una celebrazione del suo passato glorioso, ma una festa per il presente e il futuro di questa epica narrazione. I fan possono ora rivivere le avventure di Oscar François de Jarjeyes e Maria Antonietta grazie a una serie di risorse online che offrono l'accesso gratuito ai capitoli di questo manga iconico. Non è solo un'opportunità per riscoprire un classico, ma anche per esplorare un racconto che ha lasciato un'impronta indelebile nella cultura popolare. Con eventi commemorativi, mostre e pubblicazioni speciali, il ritorno di "Lady Oscar" è una festa imperdibile per tutti gli appassionati di manga.
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Dopo cinquant'anni di successi e una continua evoluzione della sua influenza, "Lady Oscar" resta un faro di eccellenza narrativa. Ambientato durante la turbolenta Rivoluzione Francese, il manga segue la vita di Oscar François de Jarjeyes, una giovane donna cresciuta come uomo, e la triste storia di Maria Antonietta, la regina francese. La trama non è solo un racconto di eventi storici, ma una profonda esplorazione dei temi di amore, lealtà, tradimento e sacrificio. La narrazione di Ikeda è così avvincente che ha catturato l'immaginazione di lettori in tutto il mondo, diventando un punto di riferimento per le storie ambientate nel passato. Manga gratuito su Mangagatto
Il 50° anniversario di "Lady Oscar" è l'occasione perfetta per celebrare e rivivere questa leggendaria serie. Le celebrazioni sono in pieno svolgimento, con eventi speciali e mostre che rendono omaggio all'eredità del manga. Tuttavia, ciò che rende questo anniversario davvero entusiasmante è la possibilità di accedere gratuitamente ai capitoli del manga attraverso varie piattaforme online. Servizi come Mangagatto offrono una vasta gamma di contenuti manga gratuiti, inclusi i capitoli di "Lady Oscar", permettendo ai fan di tutte le età di riscoprire questa epica avventura senza alcun costo.
La capacità di "Lady Oscar" di continuare a influenzare e affascinare lettori anche dopo cinquant'anni è una testimonianza del suo valore e della sua qualità. Il manga ha contribuito a definire un genere e ha ispirato innumerevoli altre opere, creando un’immagine indimenticabile della Francia del XVIII secolo. La sua popolarità si estende ben oltre i confini del Giappone, avendo influenzato la cultura popolare in molti paesi e lasciando un segno duraturo nel mondo del manga. Manga gratuito su Mangagatto
Riscoprire "Lady Oscar" attraverso risorse gratuite online rappresenta un’opportunità imperdibile per i nuovi lettori e per quelli di lunga data. È un’occasione per esplorare un’opera classica e per rivivere le emozioni e le trame che hanno catturato i cuori di milioni di lettori. Con il 50° anniversario che celebra la rinnovata attenzione verso questa straordinaria serie, è il momento ideale per immergersi in questo mondo affascinante e per scoprire perché "Lady Oscar" continua a essere una leggenda nel panorama dei manga. Preparatevi a vivere un’avventura senza tempo e a vedere come questa storia intramontabile continuerà a ispirare e a incantare anche le nuove generazioni di lettori.
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